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Ancora su open data. Ma cosa dobbiamo intendere davvero.

Ho letto con molta attenzione lo scritto di Alberto Cottica.

Ciò che ci divide non è tanto un approccio “economico e di sviluppo” versus un approccio che privilegia la trasparenza e quindi, mi permetto il primato della democrazia.

Come si capirà il mio è un pensiero un pò più complesso. Chiariamoci quindi.

Ciò che vorrei fosse chiaro a tutti noi è che quando parliamo di open data non stiamo parlando di web e di informatica. Quando parliamo di open data affrontiamo visioni della società, della politica, della struttura degli ambienti urbani.

Il dato open è una infinita ricchezza economica e sociale. Non ho mai affermato infatti solo una visione economica del problema.

Ritengo quindi riduttivo e sbagliato affrontare il tema del dato open solo dal punto di vista del dato “pubblico” e dal punto di vista della trasparenza come valore in sé.

Chi scrive ovviamente non trascura l’impatto della “trasparenza” sulla moralizzazione della vita pubblica, figurarsi.

Ma chi scrive apprezza le considerazioni di Lawrence Lessing sul pericolo dell’affermarsi di una “democrazia dell’invettiva”. Ed è questo uno dei pericoli in cui sta incorrendo purtroppo il nostro Paese.

Devo dire che il dato in sé mi interessa fino ad un certo punto. Ciò che mi interessa sono tutti i dati pubblici e privati che possono, mescolati tra di loro, generare valore economico e sociale per una comunità.

Nella mia accezione il termine “comunità” non è associato solo ad Istituzioni. Comunità è un insieme regolato di relazioni tra Istituzioni, imprese, city user ecc..

Ritengo ad esempio che sia giunto il momento di definire la nozione di “dato di pubblica utilità”. Non importa se un dato è di origine “pubblica” o “privata”; l’importante è se (e come) il mashup potrà generare valore economico e sociale.

Nel mondo materiale il concetto di “pubblica utilità” è chiaro e definito, nel mondo web no.

Questo è un problema perché limita l’ambito della ricerca al solo mondo pubblico.

Mi interessano allora le cartelle cliniche georeferenziate, mescolate con i dati della qualità dell’aria, e con i numeri civici. Ciò genera ad un tempo valore economico e sociale.

Mi interessano i dati “posseduti” da ENEL sui consumi energetici, perché, mescolati con i dati posseduti da una Amministrazione Comunale, possono narrarci l’efficienza energetica di un quartiere, di una strada, di una abitazione.

Mi interessano, se un giorno le Amministrazioni si doteranno di proprie piattaforme di socialnetworking, le conversazioni dei city user perché possono narrarci molto della nostra città e suscitare processi partecipativi.

E magari, potremmo pensare a mescolarle con i messaggi che ci provengono dagli oggetti (Internet of Things).

Ecco perché ritengo limitativa la visione open=trasparenza. Avere a disposizione innumerevoli quantità di dati provenineti da ciò che è “pubblico” non necessariamente è segno di democrazia.

Io non voglio tutto Open; voglio dati Open pubblici e privati nella misura in cui possono generare tante ricchezze economiche e sociali per una Comunità.

Ciò che vorrei fosse chiaro è che siamo in presenza della rivoluzione della conoscenza, nel suo formarsi, nel suo stratigrafarsi, nella definizione delle gerarchie e del potere.

Su questi temi, recentemente, David Weinberger ha scritto pagine memorabili nel suo libro “La stanza intelligente” alle quali rinvio. In particolare andrebbero letti i ripensamenti dell’Amministrazione Obama su ciò che deve essere open.

Il tema non è datemi “più dati”, più generica trasparenza. Il tema è quali dati, quali gerarchie dei dati.

Inoltre la visione open=trasparenza fa si che il movimento (possiamo definirlo tale) resti una minoranza in un Paese. Rilevante, forse, ma solo una minoranza.

Il valore dell’open emergerà in tutta la sua importanza nel momento in cui se ne coglierà, oltre al valore “politico”, anche quello economico. Qui, purtroppo non ci siamo.

BIG DATA è lasciato così solo all’appannaggio dei soggetti privati, ecco il motivo della mia insistenza.

Vi lascio con un brano tratto dal mio libro “Smart Cities-Gestire la complessità urbana nell’era di Internet” .

“Che cos’é il cloud computing in una “Città intelligente”?

E’ una semplice repository di bit, non in connessione tra di loro, silos verticali di dati incomunicabili “di proprietà” di soggetti diversi?

Vorremmo all’opposto, in questo libro, contribuire ad affermare il concetto di “social cloud”. Nuvole di “dati” che diventano sociali.

Il “social cloud” -il cloud computing di una “Città intelligente”- è il luogo in cui, ad esempio, piattaforme di crowdsourcing e di social networking mettono in relazione i “dati” che provengono da fonti e da soggetti diversi generando così una ricca catena di valore sociale ed economico.

Questa visione farà si che non ci si accontenti di avere a disposizione esclusivamente i “dati” che provengono da una rete di sensori che rilevano i livelli di inquinamento dell’aria.

In una “Città intelligente” si affermerà invece la consapevolezza di costruire e gestire ambienti virtuali dove, ad esempio i dati cartografici digitalizzati verranno “mesciati” (da mashup) con le informazioni fornite da un sensore della qualità dell’aria. La qualità dell’aria sarà rilevata da una app installata sul nostro Iphone.

Questi dati “arricchiti” verranno a loro volta “mesciati” con i nostri commenti su Facebook, verranno visualizzati e “taggati” su Flickr ecc.. Questi dati verranno poi contestualizzati e visualizzati da un’intera comunità su una base cartografica messa a disposizione dall’Amministrazione pubblica.

La conoscenza sarà così arricchita e resa disponibile e sarà la base necessaria perché l’Amministrazione pubblica e la “Governance cittadina” realizzino scelte consapevoli e condivise con i cittadini.

In questo modo si abbandonerà una attività dell’Amministrazione cittadina che basa i suoi provvedimenti esclusivamente sui divieti.

Si vuole invece approdare ad una idea di “governo partecipativo” basata sulla consapevolezza delle persone e sulla condivisione delle scelte, anche le più difficili.

Si creano le condizioni per adottare politiche premiali, magari partecipate dalle community attraverso il web.

L’avvento dell’epoca dell’”intelligenza” diffusa e disponibile in una Città cambia davvero tutto.”

1 risposta su “Ancora su open data. Ma cosa dobbiamo intendere davvero.”

“Mi interessano, se un giorno le Amministrazioni si doteranno di proprie piattaforme di socialnetworking” …

🙂 forse ti può interessare questo ebook che ho scritto con @psdf che propone proprio di una piattaforma per il “Citizen Engagement” (http://eugager.tvgio.com), dove le diverse “app” per l’e-Participation ai vari livelli (EU, nazionale, regionale…) potrebbero trovare una base utente comune evitando la frammentazione oggi esistente. Ovviamente l’ecosistema di “apps” deve essere distribuito nella sua infrastruttura, per evitare problemi con hosting e localizzazione dei dati.

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